Analisi etnoantrapologica dello sviluppo tecnologico in Alaska 



Argomento della tesi

“C’è un luogo in America settentrionale dove regna la natura regolando i ritmi e gli stili di vita. Un luogo dove non esiste il caos della civiltà. E’ un mondo governato dal silenzio degli enormi spazi. Questo luogo si chiama Alaska”.

L’impatto tecnologico in luoghi ancora incontaminati dell’Alaska dal punto di vista dei nativi Gwich’in, raccontato attraverso la mia esperienza personale. L’obiettivo della mia ricerca è di affrontare i vantaggi e gli svantaggi di tale sviluppo dal punto di vista degli autoctoni inserito nel suo contesto storico- geografico.   

                                                                     Alyeska 05/08/1999 20/09/1999

Durante la mia permanenza in Alaska, ho trascorso 25 giorni in un villaggio di una popolazione indigena: gli “gwich’in” (etnia mista, formata dall’unione di due differenti popolazioni, gli inuit e gli athabaskan), che vivono alle pendici delle Brooks Ranger, l’ultima catena montuosa dopo il circolo polare artico.



 

Arctic Village, così chiamano gli abitanti del luogo il loro villaggio dove per circa sei mesi invernali la temperatura scende a meno 60° e le poche luci che si scorgono sono quelle delle aurore boreali. Durante i periodi primaverili ed estivi, invece, le temperature salgono raggiungendo il massimo valore in Agosto . Assistiamo così a quella che è chiamata l’estate polare artica, durante la quale il sole non tramonta mai del tutto, ma rimane sospeso sulla linea dell’orizzonte impedendo il calare della notte.
Durante i 25 giorni trascorsi nel villaggio, gli gwich’in mi hanno dato la possibilità di partecipare, a stretto contatto con loro, alle attività della vita quotidiana e ad eventi straordinari (feste, rituali religiosi, manifestazioni musicali), permettendomi di conoscere una filosofia di vita e quindi uno stile a noi in parte sconosciuto. Attraverso l’osservazione partecipante, costante, ho potuto conoscere le loro abitudini, i loro comportamenti nelle situazioni più differenti, il loro straordinario rapporto con la natura. Mi hanno mostrato come il loro stile di vita si basi essenzialmente sulla sopravvivenza in un luogo tanto ostile quanto meraviglioso. La natura comanda e loro imparano ad ascoltarla e quindi a rispettarla. 



 

Gli gwich’in vivono soprattutto di caccia e di pesca. Cacciano il caribou (specie appartenente alla famiglia delle renne), dalla carne molto grassa, che permette loro di sopravvivere alle rigide temperature invernali. Per fare questo allestiscono, non molto lontano dal villaggio, un campo base nel quale si recano a turno per l’attività di caccia alla quale ho avuto la possibilità di assistere per circa sette giorni. 

Nel periodo trascorso nel campo base mi hanno raccontato del forte disagio socio-culturale che stanno vivendo a causa dei giacimenti di petrolio. Il governo dell’Alaska, infatti, ha costruito un lunghissimo oleodotto che attraversa il paese da nord a sud. L’oleodotto o “Pipeline” corre parallelo all’unica strada che porta dall’Oceano Pacifico (città di Valdez), all’Oceano Artico (raffineria di Prudhoe Bay).
La conseguenza più disastrosa è stata che gli animali hanno trovato sui loro cammini migratori questi ostacoli insormontabili: la Pipeline e la strada con le sue raffinerie, che li hanno costretti a deviare il loro percorso originario.
Ciò ha causato il disorientamento delle tribù, impossibilitate oggi a cacciare seguendo le massicce migrazioni dei branchi di caribou. Hanno così visto compromessa la loro attività di cacciatori nomadi e, quindi, la loro identità, la loro stessa sopravvivenza.
Il petrolio ha portato anche grandi contrasti interni alle stesse popolazioni: molti di loro si sono lasciati coinvolgere dai rapidi guadagni portati dallo sviluppo industriale, modificando il loro stile di vita.
Altri ancora non hanno saputo prendere una reale posizione a riguardo, riversandosi nelle città senza riuscire tuttavia ad integrarsi, finendo poi ai margini della “civiltà”, vittime dei suoi aspetti più negativi, come per esempio l’alcoolismo. 
L’assoggettamento alla natura ancora dominante e alle sue leggi, contrariamente alle regole di uno sviluppo tecnologico-industriale che sta cercando di adattare l’ambiente alla logica della produzione, il rapporto/impatto tra quest’ultimo e le culture native dell’Alaska è l’argomento principale che ho cercato di sviluppare anche mediante l’uso d’interviste audiovisive.
I soggetti delle interviste sono stati alcuni esponenti gwich’in che hanno lavorato nelle raffinerie, rappresentanti d’organizzazioni native internazionali, operai bianchi che lavorano alla raffineria di Prudhoe Bay.
Sono stata ospite di un americano bianco (d. j. di una radio dell’Alaska) che lavora da molti anni in un altro villaggio indigeno “Steven Village”, operando in favore dei loro diritti giuridici e territoriali, dal quale ho potuto raccogliere informazioni sulla Pipeline, sulla sua costruzione e sviluppo.
Ho raccolto, inoltre, immagini fotografiche ed audiovisive su Arctic Village, sulla caccia al caribou, sulla natura ancora incontaminata nella quale mi sono immersa totalmente trascorrendovi 10 giorni in completa solitudine.




 

Ho poi percorso la strada che costeggia la Pipeline, da Fairbanks fino all’Oceano Artico (Prudhoe Bay), dove si trova il più grande presidio industriale del nord del paese. Ho così raccolto immagini sull’oleodotto ed ulteriori interviste ad operai bianchi.



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